Un film documentario di Renato Rinaldi
Prodotto da Alberto Fasulo












C’è sempre qualcosa da spiegare, da giustificare, da nascondere o al contrario da mostrare spavaldamente, da negoziare, da trattare o da patteggiare; ci sono differenze da appianare o dissimulare, o al contrario da rendere più evidenti e leggibili.

Le “identità” fluttuano nell’aria………..

Zygmunt Bauman – Intervista sull’identità





















Geografia di un sentimento 

La bandiera è un drappo di stoffa che rappresenta simbolicamente uno Stato, una comunità regionale, linguistica o etnica, la bandiera è il simbolo per eccellenza dell’identità e si presume che chi mostra questo simbolo abbia una coscienza delle ragioni della propria appartenenza e aderisca alle istanze che quel simbolo rappresenta. 






In Friuli la bandiera con l’aquila gialla in campo blu sventola nei giardini, sui tetti delle case o delle fabbriche o penzola dai balconi dei condomini, ed è una presenza che incuriosisce perché, almeno apparentemente, non ubbidisce a nessun logica, è un elemento “totemico”, visivamente anarchico, che punteggia il paesaggio e a cui non corrisponde un apparato rituale codificato; è pura esternazione di un sentimento.

L’intenzione che sottende l’ostensione della bandiera è forte, lo si intuisce anche da accostamenti apparentemente incongruenti che forzano il significato simbolico originale (bandiere del Friuli accanto a quella degli Stati Uniti oppure a quella pirata), ma che mostrano una volontà di comunicare istanze difficilmente catalogabili che sono indice di una realtà complessa. La mancanza di forma è sintomo di urgenza; esporre la bandiera non è una formalità.

I confini di questo fenomeno sono il perimetro di un sentire (dove si finisce di sentirsi e di mostrarsi friulani?), amministrativamente i confini della regione non coincidono con quelli dell’identità friulana e men che meno con quelli cui fa riferimento la bandiera. La geografia della bandiera è la mappa di un sentimento e sono gli estremi di quel sentimento che ci interessa percorrere e analizzare per fare il punto sullo stato di manutenzione dell’identità friulana.



Sgombrare il campo






Questo capitolo nasce dall’esigenza di sgombrare il campo da possibili malintesi riguardo al progetto Babel Blu.

Il nostro interesse è lavorare sulla contemporaneità perché siamo dell’avviso che manca un’analisi e una rappresentazione del Friuli contemporaneo mentre ci sono già delle ottime ed efficaci rappresentazioni e ricostruzioni della storia del Friuli, ma anche perché riteniamo che, oltre che poco indagata, la realtà contemporanea sia anche più ricca portatrice di una complessità fertile in cui l’identità rischia di diluirsi ma anche di trovare nuove ragioni d’essere.

Lavorare sull’identità contemporanea non è produrre folklore che tenta di sottrarsi al tempo, ma è capire cosa vuol dire dirsi friulano oggi in un mondo in cui l’autorità e la tenuta degli stati nazionali vacilla e allo stesso tempo al loro interno c’è un montare di rivendicazioni di ogni tipo e un’identità europea che stenta a decollare e fatica a divenire un sentire comune. Come vive il presente e come si colloca in questo scenario chi si dice friulano, capire come si coniugano in Friuli identità e contemporaneità.

Prendiamo le distanze da una visione localistica in favore di una lettura universale del rapporto identità/bandiera, o meglio ci vogliamo occupare delle idee e dei sentimenti che regolano questo legame di appartenenza in quanto valore universale. Il Friuli, pur con la sua specialità, diventa emblema del rapporto, non sempre facile, che un popolo ha con la propria identità e i suoi simboli, una relazione in cui si può riconoscere un abitante degli Stati Uniti come della Palestina.



Friulani









500 ains prime di Crist, passadis lis alpis, int di raze celtiche, ben planc a’ jan cjap’at-sit par dute la tiare jenfri il Livence, lis monz Carnichis e Juliis e il mâr Adriatic. Su chiste tiere, clamade Friûl o ancje Patrie dal Friûl, sul cricâ dal secont milesim de nestre ete, si completave la liende de lungje formazion di un gnûf popul, che nol jere plui ni celtic, ni latin, ni langobartt ma dome furlan.

I furlans a son une comunitât a sé, tant come etnie che come culture: un popul che al risulte des gjarnaziis ch’e àn vivût chenti, une dopo l’atre, comenzant de preistorie fin in didivuè. Int di zoc diferent, cul lâ dal timp, a’ son stadis metodi adun a traviars une lungje liende evolutive che jur à dade une clare filusumie spirituâl unitarie, ancjmò prin di daur une lôr organisazion pulitiche, economiche e sociâl, costums tradizions e lenghe.[1]

I friulani sono il risultato del succedersi di diverse ondate migratorie; dai Carni fino ai Turchi passando per i Romani, celti e Longobardi. Ognuna delle quali avrebbe lasciato tracce genetiche, culturali e linguistiche al suo passaggio.

La singolarità del gruppo friulano sta proprio nel fatto che i friulani si vantano delle proprie ascendenze miste e sono lontani da tentazioni di purezza cui spesso i gruppi etnici fanno riferimento per affermare o rivendicare la propria identità. Il carattere misto è testimoniato anche dalla composizione lessicale della lingua friulana ricca, oltre alla base latina, di termini celti, longobardi e slavi.




Storie di una bandiera






La Bandiera del Friuli è la bandiera della regione storica del Friuli ed è esposta nei comuni e nelle provincie friulanofone della regione. Al suo centro campeggia un'aquila gialla con le ali aperte e la testa rivolta verso destra, su uno sfondo blu.

Le origini della bandiera risalgono alla Patria del Friuli (Patrie dal Friûl), lo storico stato friulano che dal 1077 al 1420 fu governato dal Patriarca di Aquileia. La bandiera ufficiale di questo stato era identica, a parte i colori: l'aquila era oro, mentre lo sfondo era di color blu chiaro. Questo vessillo fu usato in tutti i normali contesti e dipinta su edifici e muri. Il simbolo della bandiera avrebbe origine dal nome di Aquileia, il quale - secondo una leggenda popolare - deriva da un'aquila che avrebbe mostrato ai primi abitanti il luogo dove la città sarebbe dovuta sorgere. Alcuni studiosi hanno rivendicato che il nome di Aquileia derivi da un toponimo Celtico (Akylis) e pertanto non avrebbe niente a che fare con le aquile. Altri vedono nell’aquila l’incarnazione di un tradizionale legame con il mondo germanico ma secondo gli araldici, l’attuale aquila oro in campo azzurro e a volo abbassato dell'arma nobiliare del Patriarca Bertrando è di tipo italiano e non germanico. La bandiera viene riscoperta e assunta come simbolo di tutti i friulani nel primo dopoguerra quando l’aquila di Bertrando diventa il logo dell’Associazione per l’Autonomia Friulana e da stemma araldico diventa simbolo di un popolo.

Fino alla Rivoluzione francese comunque la bandiera era spesso lo stemma della casata regnante realizzata in forma di bandiera e in nessun caso veniva sentita dalla popolazione come la propria "bandiera nazionale". Spesso i disegni erano complessi e ricercati, lontani dalla semplicità delle bandiere d'oggi. Quando, durante la Rivoluzione francese, fu issato il primo Tricolore, si trattò quindi di una novità assoluta. Molte bandiere si sono ispirate al disegno francese.




Soggetto


Babel blu







Il titolo è un elogio a Babele come metafora del luogo che ha permesso la traduzione fra lingue. Per l'uomo, infatti, parlare vuol dire anzitutto dar senso al proprio agire e il senso nasce dal confronto con l'altro: alla base del nostro sapere c'è sempre la traduzione e trasmutazione di una lingua in un'altra. Nel senso comune però Babele è, prima di tutto, confusione dei linguaggi che, per estensione, nella realtà contemporanea diventa sinonimo del disordine che ha messo in crisi consolidati equilibri materiali e simbolici.

Eravamo abituati a concepire le identità come strutture relativamente solide, in grado di reprimere ciò che le contraddiceva e di imporre un ordine gerarchico; a rapportarci con un’immagine di noi stessi duratura, cui corrispondeva una relativa stabilità degli assetti sociali e dei ruoli personali. Tutto ciò appare minacciato dalla comunicazione globale, supportata dai nuovi media, che ci immerge in una simultaneità di mondi paralleli, reali e simulati, nei quali sempre più esprimiamo aspetti importanti della vita, a volte in contraddizione fra loro. All’identità tradizionale, se ne sostituiscono quindi altre, più morbide, flessibili e meticce, costruite in un ambiente sociale caratterizzato, anch’esso, da mutamenti accelerati, nel quale tutto sembra intercambiabile e relativo.

Babel blu nasce da un disordine visivo, il blu, infatti, si riferisce al colore dominante delle bandiere friulane e al disordine con cui sono esposte, è l’occhio esterno che si perde in questa babele di bandiere per cercare di capire come le identità, personali e collettive, reagiscono al moto centrifugo imposto dalla contemporaneità e da dove traggono l’energia per ri-strutturarsi.

Si tratta di una lettura in positivo del concetto di Babele, convinti che, visto nella giusta prospettiva, può essere una buona chiave per aiutarci a comprendere la complessità del contemporaneo.




Manutenzione di un sentimento










Babel Blu è il ritratto del Friuli contemporaneo, il ritratto di una comunità attraverso l’analisi del rapporto che essa intrattiene con i simboli che la definiscono. In primis il rapporto con la propria bandiera, un rapporto universale in cui chiunque si può riconoscere e che può essere difficoltoso, sofferto, combattivo, militante o pacificato.

Il film è la storia di come si costruisce questa relazione di come si scopre, si struttura e si arriva alla coscienza dell’identità, e di come tutto questo si rapporta alla costruzione di se e della propria esistenza.

Babel blu è un film documentario che offre una visione poetica di questo processo di radicamento inseguendo le storie di quei personaggi che, durante il lavoro di ricerca, emergeranno come emblematici per la particolarità del legame che hanno con la bandiera, con il territorio e per le forme che questa relazione assume nella loro vita.

Sarà un’incursione nel Teatro della vita del territorio dove, aggrappate alla stessa bandiera, coabitano Passione e ideologia.





Ricerca


Antropologia di un sentimento











La ricerca è uno stadio molto importante perché è qui che si determinano le figure del film e i loro ruoli, che prendono corpo personaggi e che si conosce e definisce il teatro dove agiranno.

La prima necessità è di perimetrare il fenomeno di dargli una dimensione, dei contorni
(formare l’informe) attraverso una ricognizione del territorio che dia la possibilità di immergersi nella realtà di quel mondo, e di trovare il modo per restituirne la visione: fare la ricerca è scrivere il film.

In questa fase ci si propone di indagare in nome di quali valori sono issate queste bandiere, scoprire il rapporto che i friulani hanno instaurato con questo simbolo, come se ne prendono cura, se hanno inventato o acquisito un rituale riguardante la bandiera, se è un elemento di cui si circondano anche negli spazi privati; quelli più intimi. Entrare nelle case e conoscere le persone che espongono la bandiera attraverso l’osservazione e l’indagine antropologica.

Interviste dirette al punto per la raccolta di materiale necessario per la scrittura o per individuare i personaggi e studiare il contesto in cui si muovono.

Tutto il materiale raccolto potrà diventare un importante archivio a cui potranno fare riferimento futuri studi attorno all’identità friulana.




Trattamento


Rappresentare un sentimento





La bandiera è l’oggetto, l’ossessione, la forma di un problema; il suo ondeggiare ben rappresenta l’irrequietezza, l’inafferrabilità ma anche la potenza e l’illusorietà di qualsiasi appartenenza. Per l’uomo contemporaneo, stretto tra voglia di comunità e individualismo spinto, le identità sono croce e delizia e i friulani non fanno eccezione: l’imprendibile aquila che si agita al vento in realtà oscilla tra sogno e incubo.

Per rappresentare in maniera efficace la complessità del rapporto con la propria identità bisogna assecondare questo movimento, oscillare tra queste posizioni, vagare nel paesaggio punteggiato dalle bandiere alla ricerca di figure sospese tra il dramma e la commedia, scoprire biografie capaci di contenere e incarnare gli estremi di questo sentimento.

Entrare in casa e creare un rapporto di fiducia con i personaggi, trovare un modo di stare in cui sono necessarie sia l’intimità che la distanza, creare una situazione privilegiata, fondamentale per cogliere la “verità” di ogni sentimento e comportamento, voglio trovarmi in una dimensione in cui non è possibile barare.

La bandiera è appesa là fuori, ma quello che ci interessa è la relazione tra il desiderio che la appende e le voglie, le smanie, le ansie, le aspirazioni o le frustrazioni intime della persona. Una volta trovata la relazione con il personaggio, della bandiera si potrà ancora intuire la presenza ma il fuoco si è spostato; è sul soggetto non sull’oggetto.




Il corpo del film






Il cuore del film si spinge oltre la bandiera e mira più in profondità; al rapporto tra ciò che ci costituisce e ciò che ci identifica. Più che due facce sono due sfere contigue del corpus identitario: un’identità intima, intrinseca, che viene anch’essa costruita, spesso inconsciamente, posseduta ma non sempre rivendicata, è l’identità della voce come suono, del corpo e di come esso si muove nel proprio spazio. E un’identità scelta, cercata, costruita e rivendicata, è l’identità della parola e della lingua come senso, dei segni, dei simboli, delle bandiere, delle idee cui si aderisce; è l’identità mostrata.

Nella realtà non c’è conflitto o contrapposizione e nemmeno separazione tra questi due ambiti, semplicemente i codici con cui ci esprimiamo attraverso i corpi e i gesti sono diversi da quelli delle parole e delle bandiere, è una questione di sostanza, di materia con cui costruiamo ciò che ci identifica. Penetrare questa materia, tastarne la consistenza e coglierne lo spirito è la vera sfida del film. Per riuscire in questa sfida bisogna saper stare in quella sottile terra di mezzo che c’è tra la dimensione pubblica e quella privata, essere pronti a cogliere la transizione tra queste due sfere. Si tratta di oltrepassare la soglia per entrare in una zona di franca intimità dove però il riverbero della bandiera è ancora presente.

Abbiamo appeso la bandiera lì fuori per dire qualcosa agli altri ma cosa raccontiamo a noi stessi una volta varcata la soglia di casa?




La lingua del film







Il fattore determinante nella definizione dell’identità friulana è la lingua.

L’identità o specificità del popolo friulano ha il suo riscontro primario e, per me, irrinunciabile, nella lingua. La lingua come carta d’identità di un popolo, come specchio della sua anima. Non ne faccio una questione di folclore, ma di sostanza. La lingua rivela un modo di pensare, di ragionare, di vivere e quindi di essere. È l’espressione di tutta la vita del nostro popolo, presente e passata.[2]

Il friulano è la lingua materna, la lingua degli affetti e dell’intimità ma è anche la lingua che è stata riconosciuta come diritto da una legge dello stato ed è, nello stesso momento, strumento e oggetto della rivendicazione identitaria. È questa sua ambivalenza che la rende un prezioso e potente strumento di racconto per il film.

Il Friulano è la lingua di Babel blu.

È importante vedere e far vedere che la lingua è viva, è parlata e che ha un suo valore d’uso fatto di una sensorialità che l’italiano non ha; è una lingua che possiede una materialità tangibile capace di rendere concreto e “visibile” il tessuto e il vissuto dei rapporti che la popolazione intrattiene con il territorio. È una lingua il cui suono e la struttura sono intimamente partecipi della realtà che li circonda e concorrono in modo decisivo alla costruzione di una comunità.

La lingua friulana è anche unica nel restituire il senso di questa comunità ed è questa restituzione di un mondo che ci sta particolarmente a cuore e che siamo sicuri non possa essere realizzata con altri mezzi.




Scrittura ad alta voce




La sua materia prima è la voce con il suo timbro e la sua grana.

Voce come sostanza che si agita nel paesaggio, voce di “un” corpo immerso nel suo paesaggio e che di quella immersione dice ma di cui ora possiamo ignorare il detto, ascoltarla come se si trattasse della scrittura ad alta voce evocata da Roland Barthes;

La scrittura ad alta voce, non è espressiva… è portata non dalle inflessioni drammatiche, le intonazioni maligne, gli accenti compiacenti, ma dalla grana della voce, che è un misto erotico di timbro e linguaggio, e può essere anch’essa, al pari della dizione, la materia di un’arte: l’arte di condurre il proprio corpo (...). Tenendo conto dei suoni della lingua, la scrittura ad alta voce non è fonologica ma fonetica; il suo obbiettivo non è la chiarezza dei messaggi, il teatro delle emozioni; ciò ch’essa cerca (in una prospettiva di godimento), sono gli incidenti pulsionali, è il linguaggio tappezzato di pelle, un testo in cui si possa sentire la grana della gola, la patina delle consonanti, la voluttà delle vocali, tutta una stereofonia della carne profonda: l’articolazione del corpo, della lingua, non quella del senso, del linguaggio. Certa arte della melodia può dare un’idea di questa scrittura vocale... [3]

Barthes parla di un’arte, di una tecnica che si può apprendere ed eseguire, un atto volontario finalizzato ad un esito estetico, ma la cosa interessante è che questa scrittura ad alta voce si concretizza, al contrario, in voci plasmate da un sapere che è essenzialmente “stare” in un luogo, che può configurarsi come una tecnica ma il cui apprendimento è del tutto involontario. In questo caso la voce e il suono si svelano non come veicoli di significati preesistenti, di un senso esterno, ma come spazi dove si costituisce il senso stesso, che si trova lì, nei suoni, vita e forma, corpo e identità[4]. Come parte del corpo, la voce è attiva tanto quanto lo sguardo è passivo, in attesa di essere impresso dal calco del corpo esterno, in cui al contrario la voce imprime la sua orma.[5] “Chi emette un suono sente il suono che emette” e nel ciclo di costante percezione e costruzione del paesaggio che è lo stare, la voce partecipa come il più flessibile degli strumenti; la voce si adatta ed è adattata in continuazione, reagisce in tempo reale alle contingenze/insorgenze spazio-temporali dell’ambiente che la circonda. La sua grana che si compone per stratificazioni (la cui costruzione avviene attraverso uno scontro con il paesaggio: quando esce dalla bocca la voce esplora lo spazio e sbatte contro gli elementi circostanti prima di ritornare all’orecchio) conserva memoria delle variazione subite, allo stesso modo alcune sfumature che si insinuano nel linguaggio dipendono da pratiche territoriali che non possono prescindere dal rapporto con il proprio paesaggio, e mettersi all’ascolto di una voce è penetrare nella sostanza di questa relazione, che si configura come unica; la grana sta alla voce come la voce sta al corpo e il corpo allo spazio. È un lavoro con cui si cerca di riportare al centro del problema della rappresentazione del paesaggio il corpo con le sue qualità sensibili. La voce come concretizzazione della metafora che vede il corpo come laboratorio dove si sintetizza l’esperienza di un luogo. Ma la posta in gioco di un lavoro sui sensi e sulle qualità sensibili è necessariamente quella di un empirismo attraverso il quale si possa tentare di rovesciare l’esperienza, [6] si tratta di mettere in crisi la ”posizione” da cui si “guarda” al paesaggio e tentare di scardinare il pregiudizio con cui ci si accosta ad una voce che tende a separare la parola dai parlanti e ridurre il suono a puro senso, in altre parole: mettere fine ad una disattenzione programmatica per l’unicità della voce[7].

C’è un dato segreto o incompreso, del paesaggio che si svela se tentiamo di “ascoltare” una voce piuttosto che sforzarci di capire/intendere cosa dice?

Quale segreto si dispiega -e dunque si rende pubblico- quando ascoltiamo per se stessi una voce, uno strumento o un rumore? E l’altro aspetto, indissociabile, sarà allora: che cosa significa “essere all’ascolto”, come quando si dice “essere al mondo”? Che cos’è esistere secondo l’ascolto, per esso e attraverso di esso? Che cosa in termini di esperienza e verità viene messo in gioco nell’ascolto?[8]

La relazione indissolubile tra la voce e il paesaggio.



Le ragioni del mio sentimento






Perché voglio fare questo film

Tornare a vivere in Friuli dopo quasi quindici anni a Milano è stata la scelta meno neutra che potessi fare, aveva indubbiamente vantaggi pratici ma le conseguenze emotive non erano prevedibili, e nemmeno preventivate. Non era più terra di vacanza bisognava quindi guardare con occhi nuovi, fare mente locale, decifrare segni, studiare il territorio. Una tra le tante cose che non c’era bisogno di notare, perché s’imponeva allo sguardo, era il moltiplicarsi delle bandiere del Friuli, la loro esposizione rappresentava, almeno per me, un fenomeno nuovo, un segno del presente che mi incuriosiva. Ma la curiosità veniva frustrata da risposte che, senza altre spiegazioni, facevano riferimento alla nostra storia e alla nostra identità; cercavo spiegazione a un gesto e mi sono trovato di fronte alla muta ambiguità di un oggetto che tenta di sottrarsi al passare del tempo. Così ho cominciato a percepire una distanza, un distacco profondo tra me e la terra cui dovevo appartenere e che lasciava capire che il contraccolpo cultural emotivo stava arrivando; l’ossessione per quelle bandiere chiedeva conto del mio ritorno.

Non mi ero mai posto il problema della friulanità, fuori dal proprio ambito è più facile sentire i limiti e riconoscere la particolarità del proprio agire e non si sente il bisogno di difendere una propria specialità, di per se già abbastanza evidente. Essere friulano a Milano voleva dire usare la mia lingua, usarla in teatro per lavorare, parlare il friulano era più di una particolarità; era un vantaggio, uno strumento che altri non avevano. Per me la lingua rivelava la sua utilità nella distanza, e il mio rapporto con la Friulanità e con i suoi simboli è sempre stato mediato e vivificato dalla lontananza. Ora la necessità era di abitare e relazionarsi in maniera permanente con il territorio e per farlo nella maniera migliore si trattava di ripensare proprio ciò che qui tutti danno per scontato; l’identità.

L’esperienza in teatro è stata fondamentale per capire che la propria identità ha a che fare con il proprio corpo immerso in uno spazio, in un territorio, che la nostra postura è un modo per dire quello che siamo, che c’è una sapienza in come decidiamo di stare nei nostri luoghi, un “saperci fare”, un’ "autenticità", che rimanda a quella consonanza mimetica, a quella somiglianza all’interno del proprio gruppo d’appartenenza, che ci è inconsapevolmente indispensabile per affrontare i casi della vita. A questo proposito è significativa la vicenda de “I Turcs tal Friûl”, in cui durante l’allestimento e le repliche del testo di P.P.Pasolini una quarantina di attori (quasi tutti friulani) si sono trovati a vivere un’esperienza che travalicava i limiti della rappresentazione teatrale. L’identificazione della compagnia con le istanze che il testo esprime era totale tanto che la rappresentazione assumeva le caratteristiche di un rituale pagano. Ma quel che più conta è che, durante i quindici giorni di prove per il debutto alla biennale di Venezia e poi nella tournee in Italia e Svizzera, prima che attori eravamo un corpo, prima che una compagnia, una tribù che si muoveva con una sua “aggraziata sgraziata grazia”, erano i corpi, il loro stare in uno spazio, occupare un territorio e non l’agire sul palcoscenico che ci distingueva e ci connotava e quella era la nostra forza. Abbiamo portato in giro questo nostro corpo collettivo che era la migliore bandiera che potessimo immaginare.

Dopo queste riflessioni sul corpo e l’identità ho ripreso a guardare alle bandiere ma con uno sguardo diverso, la mia attenzione va oltre la bandiera, a quello che la sua presenza cela. Quel che mi ha sempre colpito è la posizione della bandiera; sempre in uno spazio di proprietà, dove può esser vista da tutti e da dove si può vedere tutti quasi a sorvegliare l’ingresso nello spazio privato. I luoghi dove una volta si stava nei momenti di ozio a guardare e a farsi vedere, in pausa ma disponibili alla relazione.

È questo stare che mi manca, questa presenza poco mobile che partecipa del paesaggio come della vita, ed è questa stasi che immediatamente mi ha fatto pensare alla bandiera e al perché della mia ostinazione: se la sparizione di queste figure è spiegabile con il mutamento dei costumi e della società, meno comprensibile è la loro, più o meno conscia, sostituzione con la bandiera.

Questo abitare lo spazio dell’ozio lo si trovava anche nelle osterie, non voglio dire che ora il Friuli è deserto ma lo stare dentro, e fuori, di certe osterie è un rito sociale, dal carattere dinamico, effimero e autoreferenziale, profondamente diverso dal durare in un luogo che presuppone un’abitudine, una tradizione che al contempo è garanzia di un futuro in quello stesso luogo e che fondamentalmente dice “io ci sono e sono così”, che è esattamente quello che si chiede di dire alla bandiera. Come a dire che c’è una difficoltà a stare dentro il nuovo corpo sociale con il proprio corpo fisico, e il compito di dire questa difficoltà si lascia alla bandiera, di solito sistemata al limitare del proprio privato (in prossimità dei cancelli, al limitare delle recinzioni, sui tetti e sui balconi degli appartamenti) in una posizione che ne accentua il carattere di baluardo.

I corpi mancano proprio là, dove stanno le bandiere, sulla soglia tra spazio privato e spazio pubblico, che è il luogo per eccellenza dove avviene la negoziazione tra queste due dimensioni e dove, sostanzialmente, si forma la comunità. La bandiera, che è un simbolo non negoziabile, rimane sulla soglia e ne neutralizza il potenziale, mentre per il corpo, in seguito ad un intransigente aut aut “o dentro o fuori”, le due dimensioni si sono completamente separate. Un eccesso di privacy che sterilizza la voglia di comunità di cui tradisce una scarsa pratica, se non addirittura la perdita delle abilità necessarie a farla funzionare.

C’è una parte della popolazione che ha appeso fuori la bandiera a sua rappresentanza: l’aquila di Bertrando a garanzia della sua inossidabile identità.

La delega alla bandiera non è la mutazione antropologica profetizzata da Pasolini, che pure si è imposta prepotentemente, anche in Friuli, negli anni del dopo terremoto, ma è qualcosa che è avvenuto a posteriori, è cominciato sul finire degli anni 90 forse proprio in reazione alla nascente consapevolezza che l’omologazione culturale era ormai un fatto compiuto. Un’identità di riflusso; quel che si credeva perduto che torna e che decide di opporsi con i soli simboli, come se questi fossero gli unici a poter, e a saper, resistere alla perdita o quantomeno alla diluizione dell’identità. Tesi, quest’ultima, avvalorata dal fatto che, in virtù del loro scarso utilizzo, questi simboli sono rimasti immutati per quasi un millennio.

Quello che mi colpisce in questa situazione è quanto investimento emotivo c’è sui simboli che non può coraggiosamente dirigersi altrove. Quello che mi interessa è dare visibilità e concretezza a questo flusso emotivo, conoscere e far conoscere le storie che stanno dietro la bandiera, storie che valgano la pena di essere raccontate e che una bandiera non basta a rappresentare. Nel portare avanti questo progetto sono mosso da due motivazioni: scoprire il significato antropologico di questa delega e riportare il corpo al centro della rappresentazione, e la bandiera non è altro che la porta da cui entrare.

Naturalmente queste sono le ragioni private che mi spingono ad indagare, sono il motore di questa ricerca e non il fine, sono mosso da curiosità antropologica non da motivazioni ideologiche.




Rete di Collaborazioni e sostegno






Babel blu, come tutti i progetti fortemente legati al territorio, deve nascere e svilupparsi con l’apporto e il sostegno delle realtà che sul territorio agiscono per la difesa, lo studio e la diffusione della cultura friulana. Da qui la necessità di creare una rete di istituzioni e associazioni che credano nella validità progetto e si impegnino per sostenerlo.

Babel blu ha già il sostegno di Radio Onde Furlane e dell’ Università di Udine.

Quello che segue è l’elenco delle istituzioni che costituisco l’ideale rete di sostegno al progetto Babel blu e a cui si chiede di aderire.

· A.R.Le.F – Agjenzie Regjionâl pe Lenghe Furlane

· I.S.I.G. – Istituto di sociologia Internazionale di Gorizia 

· S.F.F – Società Filologica Friulana

· S.I.L.C.E. - Servizio Identitą Linguistiche, Culturali e. Corregionali all'Estero

· Circolo Culturale Menocchio

Lo scopo è anche quello di individuare, all’interno di questa rete, dei referenti che vadano a costituire un “comitato scientifico” che possa aiutare il progetto soprattutto durante la fase di ricerca.

Stiamo istituendo una tavola rotonda per studiare la miglior forma di collaborazione che un progetto così ambizioso richiede.


Note















[1] Gian Carlo Menis – Storie dal popul furlan – Clape culturâl Aquilèe
[2] Pier Antonio Bellina in Paolo Roseano – Identità friulana – ISIG Gorizia 1999
[3] Roland Barthes – il piacere del testo – Einaudi - 1999
[4] E.L.Petrini-introduzione a J.L.Nancy-All’ascolto – Raffaello Cortina - 2004
[5] C. Bologna-Flatus vocis – Il Mulino - 2000
[6] J.L.Nancy-All’ascolto – Raffaello Cortina - 2004
[7] A.Cavarero-A più voci – Feltrinelli - 2003
[8] J.L.Nancy-All’ascolto – Raffaello Cortina - 2004